Stevie Ray Vaughan: la leggenda del ragazzo del blues

Stevie Ray Vaughan: la leggenda del ragazzo del blues

Sarebbe stato straordinario in qualsiasi epoca, ma Stevie Ray Vaughan arrivò proprio nel momento giusto, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, quando il blues elettrico sembrava non piacere più a nessuno. In quel periodo “Dio” Eric Clapton aveva perso la propria vena creativa e album come Another Ticket e Money And Cigarettes non erano al livello cui Eric aveva abituato il suo pubblico. Buddy Guy, John Lee Hooker e altre antiche leggende del blues sembravano solo un ricordo lontano, mentre il giovane Robert Cray, spesso ingiustamente sottovalutato, aveva uno stile troppo soft e non offriva le sensazioni power-blues che molti chitarristi cercavano negli anni ’80, un periodo in cui le band heavy metal scalavano le classifiche musicali.

Ma fu proprio nei rumorosi anni ‘80 che Stevie Ray Vaughan lasciò il segno. Lo stile aggressivo con cui interpretava il Texas Blues era diverso da quanto si era sentito fino a quel momento, nonostante l’influenza di Jimi Hendrix (ma anche quella di Muddy Waters, Albert King, Freddie King, Chuck Berry, Lonnie Mack e Otis Rush) fosse abbastanza evidente.

Lo stile di Stevie

Il modo di suonare di Stevie Ray Vaughan era intenso e vigoroso e profondamente radicato nel blues. L’elemento che più lo caratterizzava era la tecnica della mano destra. Spesso colpiva con estrema forza le corde della sua chitarra preferita, una Fender Stratocaster che chiamava Number One, altre volte sapeva essere morbido e leggero.

Stevie aveva un modo tutto suo di pizzicare le sei corde. Energici vibrato, legati e una precisa pennata alternata, erano tutte tecniche che caratterizzavano il suo stile impeccabile. Con lui tutto, anche i fraseggi più difficili, sembravano un gioco da ragazzi. Con lui la chitarra piangeva, si straziava, altre volte diventava mare in tempesta o soffice brezza mattutina. A volte utilizzava il pollice della mano sinistra per prendere gli accordi, come faceva Jimi Hendrix, ma, sicuramente, la sua figura ritmica maggiormente riconoscibile era quella che utilizzava nella celebre Pride and Joy, in cui Stevie alternava, con decisi upstrokes, corde stoppate ad accordi aperti, muovendo la mano destra a formare una sorta di cerchio.

https://youtu.be/kfjXp4KTTY8

Molti sono i chitarristi che cercano ancora oggi di emulare il suo “tone”, che spesso definiscono l’holy grail del blues elettrico, ma alla base del suo suono ci sono tre semplici cose: una Fender Stratocaster, un amplificatore valvolare Fender e un Ibanez Tube Screamer.

Tuttavia, parte del suo caratteristico suono proveniva anche dall’uso di corde particolarmente grosse (.013 – .058), che però causavano anche alcuni problemi alle dita. Il tuo tecnico René Martinez ricorda come le corde della chitarra staccassero letteralmente dei pezzi di pelle e provocassero delle ferite alle dita di Stevie, tanto che René lo convinse a mettere della colla sui polpastrelli!

https://youtu.be/kfjXp4KTTY8

La carriera

Nato e cresciuto a Dallas, Stevie iniziò a suonare la chitarra all’età di sette anni, seguendo le orme del fratello maggiore, Jimmie. Nel 1972 abbandonò la scuola superiore e si trasferì ad Austin per dedicarsi completamente alla musica.

Insieme ai Double Trouble Tommy Shannon (basso) e Chris Layton (batteria) si esibì nei principali locali della scena texana e venne notato da Mick Jagger; Mick lo invitò a suonare ad una festa privata e lo presentò al produttore Jerry Wexler, che decise di portarlo al Montreux Jazz Festival, dove venne notato da David Bowie che decise di fargli incidere le parti di chitarra elettrica in sei degli otto brano dell’album Let’s Dance del 1983.

Grazie al produttore John Hammond della Epic, nell’estate del 1983 Stevie Ray Vaughan e i Double Trouble registrarono il loro primo album, Texas Flood, al quale seguirono Couldn’t Stand The Weather (1984) e Soul To Soul (1985).

Grazie a lunghi ed estenuanti tour e a una serie di apparizioni televisive, Stevie Ray Vaughan divenne la figura di spicco del blues degli anni ’80. Tuttavia l’abuso di alcol e droghe iniziò a minare pesantemente il fisico di Stevie, che, nell’ottobre del 1986, durante il tour in Germania, venne colto da un collasso costringendolo fuori dalla scena musicale per circa due mesi.

Rientrato dalla riabilitazione registrò il suo primo album dal vivo, Live Alive, e, nel 1989, il suo quarto album da studio, In Step.

Il giorno in cui la musica morì

Purtroppo, se, da un lato, Stevie si era fatto trovare al posto giusto nel momento giusto per la sua ascesa, allo stesso modo si trovò nel posto sbagliato nel momento sbagliato quando, la notte del 20 agosto del 1990, morì in un incidente in elicottero. Quel giorno Stevie aveva suonato con Eric Clapton, Robert Cray, Buddy Guy e il fratello Jimmie in un concerto all’Alpine Valley Music Theater di Alpine Valley Resort, nel Wisconsin. The day the music died, si dice in riferimento all’incidente aereo che, nel 1959, uccise Buddy Holly, Ritchie Valens, e “The Big Bopper” J. P. Richardson. Quella notte del 1990 la musica morì ancora una volta in volo.

Il ragazzo del blues aveva solo 35 anni e ci ha lasciato in eredità solo quattro album e una manciata di live. In vita aveva dimostrato di essere uno dei migliori chitarristi del panorama blues rock e in molti lo considerano una vera e propria leggenda. Per cui è lecito chiedersi cos’altro avrebbe fatto se il destino gli avesse concesso ancora un po’ di tempo sulla Terra.

In sua memoria venne eretta, nel 1994, nella città di Austin, Texas, una statua all’Auditorium Shores sul Lady Bird Lake, luogo di numerosi concerti di Stevie e meta ogni anno di ammiratori del ragazzo del blues.